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SULLA CURA, la cura della crisi e la crisi della cura

di Cecilia De Conti


 Dio mio, quante cose strane succedono oggi. Invece ieri tutto andava liscio.

Che sia stata scambiata, stanotte?

Vediamo un po’: quando mi sono alzata, stamattina,

ero sempre la stessa? A ripensarci mi sembra di ricordare

che mi sentivo un po’ diversa… ma se non sono la stessa,

allora mi debbo chiedere: chi sono?

Ecco, questo è il grande problema!

Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie


È pensiero comune che la principale differenza tra l’animale e l’uomo sia che l’uno vive la sua esistenza a partire dal suo centro ma non è in grado di viversi come centro, mentre l’altro ha la straordinaria possibilità di prendere le distanze da se stesso, di potersi analizzare e guardare in un certo senso da fuori e dunque di esperirsi come centro. Questo è ciò che viene chiamato ‘autoriflessione’.

L’autoriflessione non si limita allo scrutamento di sé, non è solo uno statico ripiegarsi, ma è ciò che consente all’individuo di comportarsi teoreticamente, di pensare e pianificare un futuro. È questo che significa, per dirla con Heidegger, essere nel mondo: significa essere gettati in esso in quanto piena possibilità e saper condurre l’agire, attraverso flutti e correnti, conformemente a sistemi di scopi e scelte sempre nuovi che si danno grazie al saper guardare oltre se stessi, a partire da se stessi. Significa vivere per e verso un senso.

 

“Il pensiero, inteso non come il proporsi dell’autonomia di un soggetto, ma come il disvelarsi dell’essere, coincide con l’aprirsi del senso. Il senso non è altro che l’aprirsi medesimo, colto come relazione originaria, tra il non-nascosto (alethèia) e il disvelato. Ora ciò che nel disvelarsi, appunto, si svela, assume il valore di segno poiché è indicazione per un interprete che cerca il significato […]. Ma ciò che il pensiero svela non è riducibile al pensiero e per tale via il pensiero si coglie come processo di significazione da sempre aperto al significato, mai formulabile secondo un significato compiuto. Se il pensiero non ha potenza su ciò che svela, l‟esperienza del pensare si dà come rinvio: più esattamente il pensare è uno stare nel transito […]. Il pensiero si mantiene nel trascendimento ed è per questo che non riesce mai a coincidere con se stesso: è sempre pensiero dell’altro, inteso nella doppia valenza di ‘altro da sé’ e di ‘sé’ come altro”[1].

 

È infatti grazie alla relazione, all’incontro con l’altro, che il sé può costituirsi. Non vi fosse la spinta verso il diverso non vi sarebbe neppure interpretazione, né tantomeno pensiero né senso; ci si limiterebbe a stare, immobili. Ma allora nulla sarebbe, poiché neppure l’Io potrebbe pensarsi. Viceversa:

 

“La comprensione muove […] verso un’identità che le si fa incontro come estraneità. L’estraneità certo non è separazione poiché qualcosa è riconoscibile come estraneo, come non mio, solo se in qualche modo è conosciuto come altro da me, più esattamente come ciò che è a me irriducibile. Eppure tale irriducibilità si dà in uno con la sua stessa presenza […]. Proprio per questo l’esperienza dell’estraneo rinvia ad una più originaria relazionalità. È evidente che la relazione presuppone le differenze e le differenze, proprio perché sono tali, tendono a configgere. [… Tuttavia] lo straniero può essere nemico, ma per la stessa ragione per cui è nemico egli può divenire amico: è un altro per me, e io divengo ‘io’ attraverso l’altro”[2].

 

La relazione che si dà nell’apertura di senso all’altro, dunque, non è semplicemente essenziale alla vita, ma è la vita stessa. Infatti, testimonianza più evidente di ciò, è il blocco di questo dinamico e ininterrotto protendersi che si manifesta nelle diverse declinazioni del disequilibrio: dalla malattia fisica, a quella psichica, al disagio esistenziale, forme che peraltro spesso si compenetrano.

L’apertura all’oltre diviene chiusura in sé, diviene attento e preoccupato ripiegamento verso l’interno nel tentativo di risolvere questa stasi che investe ogni aspetto della nostra vita isolandoci e separandoci dallo scorrere.

È Gadamer ad osservare  che la natura più propria della salute stia nel suo celarsi: esser sani, infatti, significa non doversi preoccupare di esserlo; significa, in sostanza, trovarsi in una condizione di equilibrio. Tale stato è in effetti l’unico che, pur coinvolgendo un gioco di forze, non richiede sforzo nell’essere mantenuto.

Alla luce di ciò si può affermare a pieno titolo che la condizione contraria sia una condizione di crisi, termine che va inteso nel suo significato etimologico di separare e, in senso più lato, di discernere, di scegliere grazie al giudizio.

Nella situazione di equilibrio inconsapevole della salute si è, semplicemente; si è per la precisione sulla cima del crinale, dove lo sguardo è libero di perdersi all’orizzonte, di muoversi, di respirare, di andare oltre, libero di non doversi preoccupare dei piedi.

Nel disequilibrio, invece, si ha il naso premuto sulla parete di roccia, si è attaccati con le unghie ai massi concentrando ogni lapillo di energia nel tentativo di non cadere, di non scivolare ancora più in basso; e gli occhi hanno uno spazio di manovra di pochi centimetri, troppo poco per comprendere che tale condizione è straordinariamente critica ed è critica perché invoca la scelta; essa chiama ed implora il palesarsi della possibilità: lasciarsi andare o tentare di risalire? e se tento di risalire, sarà in questo o in quell’altro modo? E se non posso risalire, posso comunque agire?

 

“La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e la grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere “superato”. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni”[3].

 

Quanta libertà nella crisi; e quanto giudizio, quanto discernimento sono necessari: servono analisi, chiarezza e cambiamento di prospettiva per comprendere quanta potenza ci sia nella destabilizzazione, per vederla come un’occasione per conquistare un crinale ancora più alto, o semplicemente diverso, da quello da cui si è caduti; per capire che, per dirlo con le parole di Proust, il viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuovi paesaggi, ma nell’avere occhi nuovi.

Serve, in buona sostanza, che la forza del singolo goda dell’accompagnamento della Cura, intesa in quel senso originario che comprende l’accudire. È questa Cura che è in grado di riportare l’individuo alla relazione, al protendersi verso l’altro da sé recuperando il reciproco scambio e, per ciò stesso, al fluire della vita.

 

L’originarietà consustanziale di uomo e cura trova una bella espressione nella favola di Igino riportata da Heidegger in Essere e Tempo:

Cura cum fluvium transiret, videt cretosum lutum

sustulitque cogitabunda atque coepit fingere.

Dum deliberat quid iam fecisset, Jovis intervenit.

Rogat eum Cura ut det illi spiritum, et facile imperat.

Cui cum vellet Cura nomen ex sese ipsa imponere,

Jovis prohibuit suumque nomen ei dandum esse dicitat.

Dum Cura et Jovis discepant, Tellus surrexit simu

 suumque nomen esse volt cui corpus praebuerit suum.

Sumpserunt Saturnus iudicem, is sic aecus iudicat:

«tu Jovis quia spiritum dedisti, in morte spiritum,

tuque Tellus, quia dedisti corpus, corpus recipito,

Cura emin quia prima finxit, teneat quamdiu vixerit.

Sed quae nunc de nomine eius vobis controversia est,

homo vocetur, quia videtur esse factus ex humo» [4]

 

L’uomo è fatto di Terra, ne è conferma una filiazione addirittura etimologica; questa sua materialità lo lega al mondo nella relazionalità che egli ha con se stesso e con gli altri; inoltre, a dirimere la disputa è Saturno, incarnazione del Tempo, che così completa con la storicità la condizione umana. In quest’unione di materia e tempo sta l’essenza della Cura: essa di fatto possiede l’essere umano per tutta la durata della sua vita. È dunque la cura che ci provoca a cercare un senso al nostro esistere: essa è il punto di congiunzione tra Kronos, il tempo cronologico, e Kairos, il momento opportuno.

Riassumendo: la relazione diventa il mezzo di conoscenza essenziale per l’individuo, poiché è nel rapporto, che più specificatamente si esplica nel Dia-logo, che egli conosce e si conosce. Si può dunque affermare quanto segue: se non si dà dialogo non si dà relazione, se non si dà relazione non si dà cura e se non si dà cura non si dà neppure il nostro essere nel mondo.

In questa prospettiva, il Dialogo-Cura assume un ruolo d’importanza cruciale in ogni situazione di crisi, che la persona sia un malato in ospedale o che stia invece passando un periodo di “disequilibrio” esistenziale. Tuttavia, al giorno d’oggi il termine ‘cura’ è stato derubato di questa dimensione comunicativa per riferirsi prevalentemente all’ambito della malattia biologicamente o psichicamente intesa, alla stregua di un insieme di relazioni causa-effetto. Questo è il risultato del processo di tecnologicizzazione e medicalizzazione avvenuto nell’ultimo secolo, che ha condotto a tacciare di malattia ogni condizione umana di disagio psico-fisico. Accade così che anche quelle che sono comunemente chiamate crisi esistenziali siano ricondotte a patologie oscurando, invece, la potenzialità creatrice che esse custodiscono. “Il nichilismo, il sentimento della mancanza di significato, in realtà è essenzialmente una facoltà umana e non una malattia, non è una nevrosi, ma comunque qualcosa che va superato”[5].

La persona, in questo caso, non ha bisogno di sentire spiegazioni sul perché abbia certi pensieri o viva certe situazioni: all’individuo in crisi per una scelta che non riesce prendere, al soggetto caduto nel vuoto perché ha perso un qualcosa di essenziale – che sia il lavoro, una persona o una facoltà in seguito ad una malattia – è necessaria una ristrutturazione della propria visione del mondo. A questa persona è indispensabile scoprire in sé possibilità e direzioni inesplorate. Comprendersi, non spiegarsi. Riformare il pensiero per una nuova dimensione di senso sua propria che la rilanci nel gioco della vita, non ritirarsi ancora di più in una metodica analisi delle esperienze passate.

 

Ma questo bisogno di senso, questa incessante ricerca di sé per l’oltre, non è forse il compito più proprio della filosofia? Novalis diceva che filosofare significa deflemmatizzare e vivificare, e non era forse questo che Socrate faceva continuando ad interrogare incessantemente i suoi concittadini come un tafano punzecchia le carni dell’animale? Egli sapeva che “facile o difficile che sia, per noi la questione è in questi termini: se conosciamo noi stessi, potremmo anche conoscere la cura di noi stessi; ma se non ci conosciamo, non conosceremo neppure quella”[6].

 

Non è di certo un caso che l’arte di Socrate si chiami maieutica: come la levatrice, il filosofo aiuta l’individuo a districare i dolori dell’animo per consentirgli di partorire il suo senso il quale, come un figlio, non sarà mai uguale a se stesso poiché si troverà incessantemente a dover rispondere alle richieste della vita; la filosofia dunque non impone nulla, non arriva mai ad una soluzione definitiva, non riduce a schema lo spirito e non ne direziona la via, ma si inserisce – similmente all’arte medica – nelle sue naturali risorse affinché esso, da sé, trovi la strada a lui più consona per vivere il mondo con significato.

 

“Il bisogno di filosofia sembra […] essere legato ai momenti della storia in cui l’esistenza individuale comincia a perdere significato” dice Achenbach[7]; chissà allora che non sia giunto il momento che essa lasci la cattedra e provi nuovamente a farsi pratica nel mondo nella maniera più antica e contemporaneamente più nuova: con il dialogo.

Un dialogo che non è interpretativo e non è direttivo, che non dà risposte ma aiuta a dirimere il circolo ansiogeno di chi non trova via d’uscita facendo prendere le distanze da sé, dando all’individuo una visione più globale della situazione al fine di aiutarlo a trovare il proprio personale senso; il dialogo è, di fatto, una cura che conduce ad un ampliamento di prospettive e con ciò allo schiudersi di possibilità al fine di tornare alla normalità, all’equilibrio, del protendersi. È, in questi termini, un dialogo filosofico.

 

Bibliografia

  • Salvatore Natoli, Guida alla formazione del carattere, Morcelliana, Brescia 2008
  • Hans-Georg Gadamer, Dove si nasconde la salute, Raffaello Cortina Editore, Milano 1994
  • Albert Einstein, Il mondo come io lo vedo, Newton&Compton, 2012
  • Martin Heidegger, Essere e Tempo, Longanensi, Milano 2009
  • Viktor E. Frankl, In principio era il senso. Dalla psicoanalisi alla logoterapia, Queriniana, Brescia 1995
  • Platone, Alcibiade primo (135-137), Rizzoli, Milao 2008
  • Gerd B. Achenbach, La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita, Apogeo, Milano 2004

[1] Salvatore Natoli, Guida alla formazione del carattere, Morcelliana, Brescia 2008, pp. 53-54.

[2] Ivi, p.47.

[3] Albert Einstein, Il mondo come io lo vedo, Newton&Compton, 2012.

[4] Martin Heidegger, Essere e Tempo, Longanensi, Milano 2009, pp. 240-241.

“La Cura, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa ne raccolse un po’ e cominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa abbia fatto, interviene Giove. Cura lo prega di infondere spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando Cura pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo impedì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre Giove e Cura disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice, il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: «Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, al momento della morte riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fin che esso viva lo possieda la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus »”.

[5] Viktor E. Frankl, In principio era il senso. Dalla psicoanalisi alla logoterapia, Queriniana, Brescia 1995.

[6] Platone, Alcibiade primo (135-137), Rizzoli, Milao 2008, pp. 131-132.

[7] Gerd B. Achenbach, La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita, Apogeo, Milano 2004, p. 3.